
Nove anni circa, felpa bianca e verde della mia squadra e la convinzione di crescere abbastanza per poter fare carriera nella pallavolo. Ma sono arrivata a un metro e sessantasei di altezza e lì mi sono fermata. Preciso che tengo molto a quel centimetro. Suona del tutto diverso dire uno e sessantasei rispetto a uno e sessantacinque, no?
In ogni caso, penso di essermi fermata più che altro perché non ero innamorata di quello sport. Se una cosa la voglio davvero, mi impegno per ottenerla. Tante volte mi hanno detto: “Le facoltà umanistiche non servono a nulla” o: “Scrivere non porta da nessuna parte” o ancora: “Non è la scelta giusta”. E potrei proseguire per ore, ma i caratteri dei post di Instagram sono limitati.
Sono sempre andata avanti con determinazione, compiendo scelte che a volte mi hanno portato a sbattere la testa contro pareti difficili da abbattere. Ma a quelle cicatrici io ci tengo. Tengo a ogni ruga, ogni ferita, ogni segno che mi ricordi dove sono e come ci sono arrivata. Non esiste un modo giusto o sbagliato di vivere la vita, perché è la nostra vita, non quella degli altri. Ormai ho imparato a sorridere a chi cerca di istruirmi su come dovrei vivere. Ed è stata forse la lezione più difficile che abbia mai appreso.